venerdì 26 settembre 2014

La missione impossibile

Archiviata la marcia per il Clima del 21 settembre cosa si può dire?
Chi l'ha organizzata ed è sceso per le strade la considera comprensibilmente un successo. A me 1 milione, o poco meno o poco più, a livello mondiale mi sembra sempre il solito "qualcosa per mille" che sono in grado di mobilitare le cosiddette battaglie ambientaliste a meno che non siano manifestazioni NIMBY (tutti sapete cosa vuol dire).

Evidentemente l'uomo continua ad essere quello descritto all'inizio de "I limiti dello sviluppo". La maggior parte di noi si occupa di cose che sono vicine nel tempo e nello spazio. Ciò che viene percepito lontano spazialmente o temporalmente ha un "tasso di sconto" molto penalizzante tanto da non avere valore qui ed ora.

Si fanno le marce per spingere i governi a spingere l'ONU a stringere un trattato fra centinaia di nazioni per limitare le emissioni di gas serra. Una missione impossibile. Ma non si fa nulla per spingere i governi a riflettere sulla possibilità di adottare un'agenda demografica in relazione alle risorse disponibili. Nessuno che chieda ai governi e ai parlamenti di riflettere sulla capacità di carico dei propri territori. O, se vogliamo, sulle possibili diverse capacità di carico che si possono prevedere in funzione di uno sviluppo tecnologico possibile e l'inevitabile progressivo declino della qualità di molte risorse essenziali. Dell'impronta ecologica rimane sempre e solo il Consumo e la Tecnologia. Quest'ultima spesso in posizione ambivalente, perché in quanto motore di efficienza riduce l'impatto, anche se ha storicamente aumentato i consumi. Mentre sul consumo la maggior parte degli ambientalisti ha una atteggiamento moralista riassunto nella definizione stessa della società consumista. 

La popolazione è, direbbero le persone uscite dalle scuole di studi sociali ed economici, un dato esogeno. Non modificabile. 

Si tratta di uno scotoma culturale che, quando viene evidenziato, provoca reazioni irritate o elucubrazioni giustificative da parte di persone con diversa ideologia, religione ed etnia. 



La natalità non si tocca. Per i cattolici c'è sicuramente il fatto che si va a sfruculiare il tabù del sesso. Per i liberali c'è il tabù dell'intromissione nelle libertà individuali, per i comunisti il mito della massa buona, intelligente e operosa, e in tempi recenti anche eco-sostenibile, che si genera dalla liberazione dall'odiato capitalismo. Per gli islamici estremisti c'è il bisogno, in mancanza di tecnologie adeguate, di combattere la jihad con la population womb (Cit. Arafat, che non era islamico, ma il concetto è chiaro). I mussulmani non estremisti, ed evoluti, sono, forse, i meno peggio perché non hanno il tabù cristiano della separazione fra piacere sessuale e procreazione. E poi ci sono i paesi di cultura confuciana che sono assai meglio su questo tema. Almeno lo hanno affrontato. Per qualche motivo, a me non del tutto chiaro, ho incontrato resistenze perfino da parte degli Atei Agnostici Razionalisti quando gli ho proposto un Malthus day. Malthus è anatemizzato per sempre da tutti.

Ma non dimentichiamoci che Malthus deve essere ricordato non perché le sue previsioni a breve sono risultate sbagliate, ma perché ha evocato la possibilità di un overshoot ecologico che, puntualmente, superata l'ubriacatura da combustibili fossili si sta ripresentando con gli interessi, sotto forma della stessa combinazione proposta da Malthus, popolazione vs risorse disponibili. 

martedì 16 settembre 2014

Ucraina e dintorni.

Jacopo Simonetta

La guerra provoca forti e spesso insane reazioni e quella in corso in Ucraina non fa eccezione.    Così, invece di sostenere le ragioni degli uni o degli altri, vorrei qui attirare l’attenzione su di una serie di aspetti ed implicazioni che la stampa tende a trascurare.   L’elenco non sarà certamente esaustivo, né si pretende di conoscere come davvero stiano le cose; tanto meno come si evolveranno.   Semplicemente, l’intento è di proporre degli argomenti di riflessione.
Premessa ad ogni ragionamento dovrebbe essere un dato fondamentale e totalmente ignoto: Come andranno a finire le cose sul campo?  
Personalmente, credo che sia realistico ipotizzare che questa fase acuta si concluderà su di una linea del “cessate il fuoco” che diventerà una frontiera di fatto, anche se mai formalmente riconosciuta.   Gli impatti di una tale situazione sul resto del mondo dipenderanno poi molto da quanto i vari governi coinvolti risulteranno dipendenti dai rispettivi partiti nazionalisti.   Potrebbe infatti risultare una situazione alla “georgiana” in cui, superata la fase acuta, si ristabiliscono relazioni quasi normali, perlomeno fra i paesi non direttamente coinvolti; oppure “alla coreana”, con un vero e proprio fronte di guerra, sia pure congelato a tempo indeterminato.
Molti altri sono gli scenari possibili, ma credo che qualcosa di questo tipo sia molto probabile e su questa ipotesi si basano le speculazioni che seguono.

Una prima considerazione che mi pare interessante è la seguente: la divisione dell’Ucraina in due parti, una legata alla Russia e l’altra all'Europa, era nell'aria fin dallo scioglimento dell’URSS ed avrebbe potuto essere una soluzione obbiettivamente ragionevole; perché dunque arrivare all'attuale situazione?   Ancora pochi mesi addietro Russia, Europa ed USA avrebbero probabilmente potuto imporla di comune accordo ad un governo ucraino che  ha ereditato da Yanukovich la situazione politico-economica peggiore possibile.
Si può discutere all'infinito sul perché questo non sia accaduto e su chi ne abbia la responsabilità maggiore, ma il fatto per me saliente è che una soluzione condivisa da quasi tutti (probabilmente anche in Ucraina) è definitivamente tramontata non tanto per la cosa in sé, quanto per i mezzi utilizzati per raggiungere tale scopo.   Mezzi che stanno ingabbiando tutti in un gioco delle parti sempre più vincolante.   Una situazione estremamente pericolosa perché facilmente può condurre i governi ad azioni molto più drammatiche di quelle inizialmente pianificate.
Un secondo gruppo di questioni è rappresentato da come questa crisi stia ridisegnando le mappe geopolitiche del mondo.
Da un lato abbiamo l’Europa che, fedelissima alla sua tradizione, si presenta all'ennesimo appuntamento con la storia divisa e sbandata.   In prima, grossolana approssimazione possiamo individuare quattro partiti: Il primo comprende soprattutto i paesi baltici, la Polonia, gli scandinavi e l’Inghilterra che propongono un intervento deciso, foss'anche militare.   Il secondo ha il suo vessillifero nella Germania, che vorrebbe in tutti i modi salvare i suoi ottimi rapporti commerciali con la Russia.   Il terzo comprende invece l’Ungheria (oltre a parte dell’opinione pubblica euro-occidentale) che tifa apertamente per Putin, sperando in una sua vittoria come prodromo di rischieramento dei paesi europei sotto l’egida del Cremlino.   Infine il quarto partito comprende paesi che, come l’Italia, vorrebbero dare la priorità agli interessi commerciali, ma non osano dirlo.
  Tutto ciò influenza, ovviamente, i rapporti fra i governi UE.   Negli anni scorsi la Germania, forte del suo prestigio politico e della sua forza economica, ha assunto una sorta di leadership informale in seno all’Eurogruppo, ma il degenerare delle situazione alle frontiere orientali dell’Unione ne stanno erodendo il prestigio e rinforzano i ranghi di coloro che sono insofferenti di tale primato e delle politiche che ne derivano.   Si giungerà ad un isolamento del governo Merkel,. ad un cambio di leadership e, dunque, di indirizzo politico dell’EU?   Possibile, ma comunque di limitata rilevanza globale poiché l’Europa ha perduto negli anni ’90 l’occasione per costruirsi una politica autonoma.   Man mano che le crisi (politiche e militari all'estero, economiche e sociali all'interno) si aggravano, gli spazi di manovra si restringono e la posta si alza.   Ne consegue che la cronica divisione degli europei e la loro completa dipendenza militare dagli USA ci stanno rapidamente riportando ad una situazione di totale sudditanza da una potenza straniera che, però, non è più l’America vincente della seconda metà del XX° secolo, bensì la potenza in declino della prima metà del XXI.   Di qui il desiderio di alcuni di abbandonare una barca che fa evidentemente acqua per saltare su di una che, affondata 30 anni fa, sta oggi cercando di recuperare parte dell’impero perduto con una politica di potenza finanziata perlopiù cedendo la più strategica delle sue risorse (l’energia) a paesi che ostacolano tale intento, pur non esitendo a finanziarlo.
Sul piano economico, conosciamo la melma “postpicco” in cui si dibatte l’Europa e certamente il peggioramento delle relazioni con la Russia non può che aggravare la situazione nel breve termine, ma sulla tanto temuta eventualità di un taglio delle forniture energetiche pesa il semplice fatto che l’economia russa dipende da quella europea ancor più di quanto quella europea non dipenda da quella russa.   Un fatto questo molto positivo perché, indubbiamente, rappresenta un freno per tutti gli attori coinvolti.
Un fatto curioso a questo proposito è che, mentre ha avuto molta eco l’offerta del tutto immaginaria degli USA di fornire all'Europa il gas attualmente comprato in Russia, pochissima eco ha ricevuto l’analoga proposta avanzata dall'Iran.   Una proposta questa difficile, ma certamente meno fantastica di quella americana.   Ma, soprattutto, una proposta che, incrociandosi con le trattative sul nucleare e con le vicende belliche in Medio Oriente, potrebbe contribuire a modificare molti degli equilibri-chiave storicamente consolidati.
Veniamo quindi agli USA che hanno sempre lavorato per indebolire la costruzione europea e che, in questi ultimi anni, hanno attaccato massicciamente la nostra moneta per sostenere la loro.   Di fronte al degradarsi della situazione in uno scacchiere che si credeva stabile, si trovano improvvisamente nella situazione di avere di nuovo bisogno degli europei.   Politici abili potrebbero sfruttare quest’opportunità, ma dubito che ce ne siano.   Indipendentemente da ciò, gli USA si trovano di fronte al fatto che non potranno affrontare gli enormi costi connessi con il mantenimento dello status di “unica iper-potenza mondiale” conquistato nel 1989 ancora per molto.   Naturalmente lo negano, ma lo sanno benissimo.   Solo che la loro scelta di un’alleanza strategica con la Cina si è rivelata un boomerang ed il colosso asiatico, adesso che si sente abbastanza sicuro del fatto suo e che  a sua volta è messo alle strette dagli effetti globali del “picco di tutto”, non nasconde più le sue mire imperialistiche.   Mire che, necessariamente, potranno essere soddisfatte solamente sottraendo “province” al fatiscente impero americano.
Di qui la strategia di Obama, tesa a spostare il fulcro dell’azione politico-militare americana in Asia; strategia messa a dura prova dall'esplodere contemporaneo della duplice crisi in Ucraina ed in Medio - Oriente (collegate fra loro tramite il possibile ruolo dell’Iran in entrambe)
E veniamo alla Russia.   Se da un lato l’opposizione filo-occidentale è stata praticamente silenziata dagli arresti degli anni scorsi e dall'attuale ondata di popolarità di Putin, dall'altro il presidente si trova oramai legato alle fazioni più fortemente nazionaliste dell’opinione pubblica.   Una situazione che al momento gli conferisce grande forza, ma che ne vincola moltissimo le possibilità di manovra.
Un altro fatto interessante è che, mentre smantella le organizzazioni filo-occidentali sul suo territorio, Putin sta attivamente cercando di ricreare una rete di gruppi politici a lui favorevoli in Europa.   Niente di nuovo, né di diverso da quello che fanno i paesi occidentali in Russia; la novità è semmai che, mentre tradizionalmente i sostenitori del Cremlino in occidente erano i partiti di matrice marxista, oggi il governo russo sta stringendo alleanze con partiti come lo Yobbik, Forza Nuova, Front National, Alba Dorata ecc.,  unici ospiti occidentali all'importante convegno promosso dal governo russo, guarda caso a Yalta.
Un altro dato su cui riflettere è che l’attuale crisi ucraina è nata dalla politica idiota di Yanukovich in merito all'adesione all'Unione Euroasiatica; progetto geopolitico su cui Putin aveva fondato tutta la sua strategia di lungo termine.   Ma all'Unione Euroasiatica per adesso hanno aderito solo due paesi: la Bielorussia ed il Kazakistan, i quali hanno però posto una serie di condizioni che il governo russo non deve aver gradito: in particolare la piena libertà di intrattenere qualsiasi rapporto commerciale con qualsiasi altro partner e possibilità di uscire dall'accordo; ma soprattutto l’esclusione dell’Abkhazia e dell’Ossezia del sud dal trattato (paesi che peraltro nessuna delle repubbliche ex-sovietiche ha riconosciuto, come del resto nessuna ha per ora riconosciuto l’annessione della Crimea).     Mentre la Bielorussia gioca il ruolo del mediatore politico e, soprattutto commerciale, fra Nour Sultan e Putin sono già volate reciproche minacce, neanche troppo velate.   Un fatto importante perché mentre la Bielorussia è un paese sfinito, come l’Ucraina, il Kazakistan sta cavalcando l’onda del suo petrolio scadente e costoso, ma pur sempre relativamente abbondante.
Un aspetto del puzzle che ci porta a considerare gli aspetti energetici della crisi.   Oltre alla citata questione delle forniture di gas all'Europa, si è data molta enfasi all'accordo di fornitura di gas siberiano alla Cina.   In realtà, dietro la fumata propagandistica per il momento c’è ben poco arrosto: i quantitativi sono minimi rispetto a quelli venduti in Europa e provengono da giacimenti comunque troppo lontani per raggiungere l’EU.   In effetti, era una trattativa già avviata e la crisi ucraina ha permesso ai cinesi di spuntare un prezzo migliore, mentre hai russi ha dato un buon argomento per la loro propaganda interna ed estera.
Rimane però vero che, in una prospettiva di medio periodo, la Cina potrebbe davvero diventare il mercato principale dell’energia russa, lasciando “al buio ed al freddo” un Europa sempre più avvitata fra crisi socio-economica, incapacità politica e  risorgere di nazionalismi.
Sarebbe un’impresa lunga e costosa, ma probabilmente possibile, soprattutto perché potrebbe fornire alla Cina la possibilità di giocare il ruolo di “terzo che gode fra i due litiganti”.   Infatti, una simile evenienza lascerebbe la Russia totalmente dipendente da un vicino che anziché un “un nano politico e gigante economico” in via di ridimensionamento, sarebbe una potenza imperiale emergente con concrete possibilità egemoniche sul buona parte del pianeta.   E’ vero che la crisi “postpicco” globale ha già segnato anche la Cina e che tale situazione non potrà che peggiorare, ma è anche vero che altri stanno facendo di tutto per accelerare il proprio declino, cosicché la posizione cinese potrebbe anche migliorare in rapporto alle altre potenze, almeno per un certo periodo.   E certamente satellitizzare la Russia potrebbe essere un’ottima carta per la Cina.   A questo proposito, viene da ricordare il fatto che poco più di un secolo fa la Cina fu facilmente soverchiata perché, certa della sua grande potenza storica, sottovalutò grossolanamente le capacità delle potenze allora emergenti.   Oggi alcuni fra i vincitori di allora stanno probabilmente facendo l’errore eguale e contrario ed i russi sono probabilmente fra questi.
  In conclusione, è presto per dire se tornerà una sorta di “Guerra Fredda, n.2”, ma di sicuro la frattura fra occidente e Russia c’è stata e probabilmente non sarà sanata presto; è anzi possibile che col tempo tenda ad allargarsi ancora.   Ciò cambierà gli equilibri e le alleanze a livello mondiale.   In occidente, probabilmente favorirà la crescita dei partiti di estrema destra e nazionalisti, ma potrebbe anche ricompattare buona parte dell’opinione pubblica moderata attorno ad un Patto Atlantico oggi quanto mai sbiadito.   In fondo, la paura di un nemico esterno (prima nazista e poi comunista) ha avuto un ruolo fondamentale nel compattare e far funzionare le democrazie occidentali per buona parte del XX secolo.    Un ottimista potrebbe anche spingersi a pensare che tale situazione potrebbe indurre europei ed americani ad abbracciare finalmente una decisa politica di riduzione dei consumi energetici e di sviluppo di energie rinnovabili effettivamente funzionali.   Un pessimista potrebbe invece pensare che la situazione indurrà i governi a lanciare anche in Europa avventure suicide come il fracking e simili, ma in ogni caso i progetti di sfruttamento commerciale dell’Artico subirebbero una brusca fermata ed almeno questa potrebbe essere una buona notizia.
  Inoltre, sarebbe la fine della globalizzazione, col il ridisegnarsi delle rotte commerciali e migratorie su basi principalmente politiche anziché esclusivamente commerciali.   Un terremoto che travolgerebbe molte imprese, ma che potrebbe anche aprire delle nicchie per attività economiche meno ciecamente distruttive di quelle oggi di moda.
  In sintesi, questa crisi sta indebolendo contemporaneamente l’Europa e la Russia a vantaggio di USA e Cina.   Se la situazione non si alleggerirà rapidamente, l’effetto principale sarà infatti che entrambi vedranno crescere la loro dipendenza da potenze “tutelari” sempre più disperatamente alla ricerca di risorse e di spazi politici da sfruttare per rallentare il proprio declino (USA) o per rilanciare la propria scalata all'egemonia globale (Cina).   Entrambi hanno già ampiamente dimostrato di essere dei validi alleati contro minacce provenienti da altri “imperi”, ma anche di non esitare a sacrificare le proprie provincie quando questo gli sia utile.    In altre parole, questa crisi indebolisce tutti a vantaggio del dipolo USA-Cina, due potenze divise su tutto, eppure visceralmente interdipendenti.
Chi vivrà vedrà.

domenica 7 settembre 2014

Pensierino della domenica.

Sentire la rassegna stampa ogni mattina conferma la mia opinione secondo cui le classi dirigenti politiche, imprenditoriali, sindacali, accademiche, culturali, etniche e religiose non hanno ancora capito in quale genere di crisi siamo. 

Mi rendo conto anche che la mia opinione non è né modesta né, tantomeno, umile. "Proprio te hai capito?". E' un problema che mi pongo ogni giorno davanti allo specchio. Il fatto lo spiega molto bene il passaggio di un libro che ho letto recentemente: "Natura in bancarotta" scritto da Wijkman e Rocktroem. Il secondo autore è un accademico svedese che da decenni si occupa di sostenibilità e ha fondato lo Stockholm Resilience Center, una istituzione interdisciplinare e transdisciplinare in cui si elabora strategie e visioni per un mondo sostenibile. 

Bene, Rockstroem ad un certo punto parla della difficoltà di trovare sia naturalisti che umanisti che abbiano una visione sistemica. Questa è, testualmente, il passaggio:

Da direttore di due organizzazioni che si occupano di sostenibilità e resilienza 
afferma: "devo faticare per trovare e assumere scienziati che comprendano appieno
le dimensioni sociali del loro lavoro, o economisti, politologi, antropologi, filosofi che capiscano appieno le dinamiche complesse del sistema biochimico del nostro pianeta.
Siamo ad un passaggio cruciale della storia dell'umanità: è ora di ammettere che la scienza, in base alla quale vengono prese molte delle decisioni che cambieranno il corso dello sviluppo umano, non si basa su soluzioni sistemiche."

La nostra società ha selezionato in funzione del grado di specializzazione. Negli anni cinquanta in un testo ormai dimenticato di futurologia ecologica e socioeconomica: "il futuro è già cominciato", Robert Jungk (L'autore anche del più noto "Lo stato Atomico") diceva che c'era bisogno di generalisti più che di specialisti. Da allora ad oggi solo lo specialismo è stato premiato. Forse non è colpa di nessuno, il sistema funziona bene finché i flussi di energia e materia dalla natura alla società sono facili e abbondanti e la natura è in grado di accogliere e metabolizzare senza grosse perturbazioni i rifiuti delle nostre attività. 

In un simile ambiente l'innovazione e lo sviluppo tecnologico incrementano efficacemente l'efficienza del sistema e i problemi, quando ci sono (e spesso ci sono) passano inosservati o possono essere trascurati.

Quando invece, come sta succedendo in questo inizio secolo, il flusso di energia e materia diventa viscoso e i cascami si accumulano nell'ambiente; come accade con la CO2 in atmosfera, i nitrati e i fosfati nel suolo e nei bacini idrici, la plastica nei giri oceanici, gli inquinanti tossici di origine sintetica nei suoli e negli organismi ecc, cresce il bisogno di una visione sistemica che è invece totalmente assente. Al tempo stesso la rincorsa tecnologica diventa sempre più inefficace a causa del noto (ma in certe circostanze ingnorato) principio dei rendimenti marginali decrescenti. Man mano che il sistema diventa più complesso trovare vie di uscita tecnologiche diventa più difficile e costoso. Il principio ha riscontri in ecologia, economia e termodinamica, ma nessuno ha il coraggio di tirare le somme: la tecnologia può ancora vincere qualche battaglia, ma ha perso la guerra.

La tecnologia si applica a migliorare l'efficienza dei sistemi, ma se il sistema è sbagliato aumentarne l'efficienza è inutile.
 
C'è un aggravante che riguarda le classi dirigenti, coloro che per ragioni di capacità e/o fortuna hanno ottenuto risultati eccelenti nell'ambiente culturale iperspecialistico che si è solidificato nei secoli scorsi, vengono chiamati a risolvere problemi di cui sono tanto all'oscuro quanto l'uomo della strada, con l'aggravante di essere dotati di un'autostima debordante che li rende ciechi rispetto a qualsiasi limite culturale possano avere. Un affare serio.

sabato 6 settembre 2014

Il paese degli elefanti.

Ho scritto questo libro per due motivi, il primo motivo, quello scatenante è la reazione nei confronti di coloro che vorrebbero far passare un interesse privato e circoscritto per un interesse generale. Qui parlo ovviamente dei vari agenti di public relations delle compagnie petrolifere a cominciare dall'ex presidente del consiglio Romano Prodi che in diversi interventi ha sostenuto che procedere ad estrarre (cioè a far estrarre dai suoi amici petrolieri) le ultime gocce di petrolio e le ultime bolle di gas nel nostro sottosuolo è di grande importanza strategica per l'economia del paese. La seconda ragione per cui ho scritto è che ad un certo punto, dopo un po' di anni che uno studia, o cerca di comunicare quello che ha studiato o si sente inutile. Quindi la querelle sulle riserve italiane è stata in fondo per me una scusa per parlare dei limiti delle risorse petrolifere e rinnovare il dibattito sulla base energetica della nostra società affermando che, come ha detto qualcuno, è meglio abbandonare il petrolio prima che lui abbandoni noi.

…dire che in Italia abbiamo quantità ingenti di idrocarburi, è come dire che l’Italia è il paese degli elefanti perché ci sono due elefanti allo zoo di Pistoia e altri 4 o 5 sparsi nei circhi. Non è così! E’ una frottola.